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Lapvona - Ottessa Moshfegh


Che Ottessa Moshfegh fosse una scrittrice che è solita rappresentare un'umanità degradata e disturbata, spesso annichilita da un vuoto esistenziale e che non cerca redenzione, lo avevo compreso leggendo 'Il mio anno di riposo e oblio'. Un titolo ancora ridondante e che ha avuto un'ampia cassa di risonanza, in positivo e in negativo. Io stessa ho provato un tedio non indifferente leggendolo, ma Lapvona è stata una lettura più disturbante e cruenta senza ombra di dubbio, e la cifra stilistica della scrittrice americana si è confermata la medesima. Se vi dicessi che ho trovato questo libro bello vi mentirei, perché si tratta di un titolo cruento e delirante. Eppure l'ho letto in poco tempo con curiosità e letteralmente non sono riuscita a distaccarmene dopo un inizio più soporifero. 

Moshfegh ha deciso di ambientare il romanzo nel villaggio medievale di Lapvona come da titolo, non servendosi però di coordinate spazio-temporali precise. Ciò che conta, nella sua narrativa, è portare alla ribalta la depravazione dell'umanità, non date e luoghi. E direi che in questo caso è emerso in modo vivido ciò. Il villaggio, soggiogato da Villiam, il vile signore del feudo, è un villaggio estremamente povero e i suoi abitanti sembrano essere annebbiati da credenze religiose e radicati in una situazione stantia sotto il giogo di chi detiene la ricchezza. Conosceremo Marek, il figlio storpio del pecoraio Jude, lo stesso Villiam, una figura stregonesca che si chiama Ina, l'ostetrica cieca profondamente connessa alla natura, il prete Barnaba e altre figure. Lapvona è un romanzo basato sulla crudeltà già dalla prima pagina, dal momento che si apre con una esecuzione da parte di banditi, per proseguire con un crescendo di grottesco e violenza non mitigate. 

Solo i malvagi restano intrappolati nei loro cadaveri. È il loro castigo eterno: quelli che vanno all'inferno marciscono. Quelli che vanno in paradiso scompaiono. Non c'è più traccia dei loro corpi. Comportati bene e non ti lascerai nulla alle spalle. Comportati male e resterai per sempre a marcire nel tuo corpo sottoterra. 

Questo è ciò che Jude racconta a Marek. Da qui capiamo già quanto a Lapvona sia ridondante il concetto di paradiso e inferno. La religiosità, l'onnipresente Dio, hanno dimora fissa nelle parole dei lapvoniani. Parole appunto, perché in barba alle - in apparenza - buone intenzioni si cerca di guardare al proprio orticello e di credere che la provvidenza divina guardi e ascolti. Lo stesso Barnaba non è quel che si direbbe essere un sacerdote esemplare, ma si  rivelerà un vile proprio come Villiam. Come definireste un prete che fa la spia nel villaggio per far si che i banditi, in accordo col signore feudale, saccheggino le già povere dimore dei contadini? Un vile che si imbelletta con la parola di Dio per raggirare chiunque. Sembrano quasi una macchietta, Barnaba e Villiam; una parodia dei trafugatori di buon senso che abbondano anche oggi, nonostante il romanzo sia ambientato nel medioevo. Sono convinta che l'autrice abbia voluto scrivere questo romanzo folle soprattutto con chiave di lettura, far emergere la melma dell'umanità con tutte le sue ipocrisie. A Lapvona vigono ipocrisia e assuefazione. Villiam è un individuo senza sfumature, dedito ai propri vizi e senza senso, caricaturale. Jude parla di paradiso e il suo non è affatto un atteggiamento da padre verso Marek, il figlio orribile dai capelli rossi, lo stesso che si autoflagella per espiare colpe di altri. Autoflagellazioni, stupri, omicidi e cannibalismo, animali imbalsamati; troverete questo in Lapvona, per cui devo redarguirvi se siete sensibili a tali argomenti. Nel romanzo ritroviamo anche una venatura fiabesca, sempre di quelle oscure però. Marek e gli altri sono stati allattati da Ina, la balia cieca che a cent'anni è ancora in grado di allattare e che viene osservata con sospetto.

Quale germe diabolico aveva riportato indietro con sé? Perché Dio l'aveva risparmiata, lasciandola cieca e orfana? Non sarebbe stata più misericordiosa la morte? Forse la cecità era la punizione per un male blasfemo che c'era nella sua anima. E se era morta, era forse uno spettro venuti a deriderli e a torturarli? 

La prosa di Moshfegh è semplice anche nel narrare nefandezze e va dritta al punto senza mitigare barbarie e scene crude. L'umanità nel proprio imbarbarimento è rappresentata senza fronzoli e come scrivevo i suoi personaggi non cercano redenzione, piuttosto si trastullano in miraggi che hanno a che fare con religione e bugie autoinflitte come le flagellazioni. Vi sono alcuni punti del romanzo in cui la cupezza emotiva sembra essere lievemente illuminata da alcune prese di coscienza, per poi ricadere inevitabilmente in una fossa senza speranza.  

Traduzione di Silvia Rota Sperti|pp.270|cartaceo euro 18




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