Non ci sono segreti a questo mondo.
Recita così il proverbio Thai che introduce Il regno di vetro, l'ultimo romanzo di Lawrence Osborne pubblicato da Adelphi e tradotto da Mariagrazia Gini.
Osborne, scrittore viaggiatore e giornalista, conosce bene Bangkok nella quale vive da diversi anni. Sono note, nei suoi romanzi, le descrizioni ricche ed altamente immersive degli ambienti in cui i protagonisti si muovono. Il regno di vetro è un romanzo pregno di queste descrizioni, fin troppo ricche e talvolta soffocanti come soffocante è il Kingdom, il residence dalle quattro torri di ventuno piani collegate da ballatoi che ospita Sarah, fuggitiva statunitense che porta con sé 200.000 dollari. Sarah fa parte dei farang, gli stranieri bianchi osservati con occhio sospettoso dagli abitanti locali. Qui vivono i rappresentanti di un sistema di gerarchie sociali che in un gioco di specchi e identità edulcorate da finzioni travestite portano avanti esistenze in bilico.
Quando si alzarono i venti del monsone, ai piani alti del Kingdom le piogge iniziarono a scrosciare appena prima dell'alba. In lontananza risuonarono le cannonate della tempesta. Dall'appartamento con le grandi finestre scorrevoli aperte Sarah percepì le folate persino dormendo; i gechi a caccia sulle pareti si sparpagliarono, puntando verso il soffitto, più ombroso. Sognò di essere a New York e di nuotare, sola e indisturbata, nella piscina interna del vecchio palazzo della YWCA sulla Cinquantatreesima, finché strepitò una sirena sperduta e la piscina si disintegrò.
I lettori sono immediatamente proiettati nella realtà del residence sin dalla prima pagina. La stagione dei monsoni rende tutto umido, con una patina che si riversa sulle due facce della stessa medaglia; l'opulenza del materialismo e la spiritualità thai. Cinesi, giapponesi, thailandesi, americani in fuga oppure alla ricerca dei piaceri sono abitanti di questo complesso che con loro stessi diventa evanescente, pronto ad esplodere in frantumi. Sarah stessa, dopo aver truffato una scrittrice si riversa qui, stringe amicizia con altri abitanti del complesso. Mali, Ximena, Mrs Lim. Fuori la città mostra la sua 'bellezza superstite', 'una decomposizione con al suo interno un oscuro nettare umano' e fra i piani del palazzo si stringono amicizie tra bicchieri di sakè, giochi a carte e scambi di battute equivoci. Sarah nasconde il suo malloppo sotto il letto, si beve e si gioca, nel frattempo si pensa a come interdire le prossime mosse altrui con discrezione. Ma il Kingdom tutto vede e tutto sa, l'afa e i black-out fanno sudare ancora di più quella tensione pacifica che s'instaura sui ballatoi.
Erano perennemente vulnerabili. Anzi, era questo che le piaceva, sebbene non fosse molto logico sul piano razionale. Ma fu certa che la faceva sentire più viva. Ogni giorno c'era una piccola sensazione di rischio, di transitorietà. Il Kingdom li proteggeva, conferiva loro uno status, ma metteva anche in chiaro che nella dimensione sociale non valevano uno zero. Era un rifugio, una prigione, una fantasia e una macchina abitativa del lusso, contemporaneamente.
Osborne ha ben reso il senso di straniamento, l'asetticità dei personaggi. È proprio questo il punto. Nelle tante descrizioni, così pregne di dettagli e fra questi personaggi che sembrano essere vitrei mi sono persa, giunta alla prima metà del romanzo. Questo non è un thriller tradizionale, procede lento e denso con una descrizione degli ambienti fatta con maestria. Una penna impegnativa, fitta, che mi ha messa in difficoltà. Certo è che Osborne verso il finale ci ha fatto comprendere come il proverbio Thai citato inizialmente sia veritiero. Nel Kingdom nessun segreto è al sicuro, le carte si svelano e i giocatori fanno bluff a sé stessi.
Curiosità copertina: la foto in cover appartiene ad un progetto della fotografa slovacca Mária Švarbová, In the swimming pool, atto a riprodurre scenari onirici, asettici nei contesti delle piscine sovietiche costruite in era socialista.
Ringrazio la casa editrice Adelphi per la copia del romanzo.
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