Ci sono scrittori la cui narrativa si può descrivere in tanti modi, in alcuni casi un aggettivo è quello che meglio si presta a descriverla: evocativa. La scrittura di Julián Ríos, scrittore contemporaneo spagnolo considerato postmodernista che ha scritto con Octavio Paz, ne è un chiaro e vivido esempio. Il titolo, Cortejo de sombras, Corteo di ombre tradotto per Safarà da Bruno Arpaia, ci offre già un rimando per nulla elusivo a quella che è la materia trattata in questa ballata di nove racconti in terra galiziana.
La storia editoriale del libro non è stata tracciata in linea retta, ma ha subito rimandi e deragliamenti dalla prima stesura alla pubblicazione vera e propria.
Scritto fra il 1966 e il 1968 a Madrid, Corteo di ombre prendeva forma per uno scopo ben preciso di Ríos che ha scritto: 'Cercavo allora di rivivere e di ricreare senza provincialismo la mia Galizia privata, il Paese delle meraviglie dell'infanzia e dell'adolescenza, con le sue ombre, a volte nefaste, che tornavano dal passato, al quale si univa, tra il nostalgico e lo spettrale, il paese "da cui partirai e non tornerai" di tanti emigranti'. Ad oscurare il manoscritto, il timore della censura in regime franchista. A ridare luce al romanzo, una conversazione a Parigi con i propri editori francesi. Oggi possiamo leggerlo nella prima traduzione e pubblicazione italiana grazie alla casa editrice indipendente.
Corteo di ombre è anche Il romanzo di Tamoga, la cittadina galiziana calpestata e vissuta nelle nove storie componenti la ballata. Uno spazio immaginario che ricorda però la realtà, con le sue crepe polverose, personaggi nel gaudio o nell'accoramento che come ombre seguono la carne viva di azioni, consuetudini e spinte emotive le mura della città.
Come conseguenza di quegli eventi imprevisti, circolò un'infinità di voci che attribuivano ai protagonisti di questa storia le azioni più assurde e inverosimili.
L'aria acre e paludosa accoglie nuove anime, sussurra a quelle che vi hanno sempre vissuto e ne lascia scivolare altre. I nove racconti, ognuno a sé stante, potrebbero essere considerati come dei pezzi di un unico puzzle, un romanzo corale, breve e intenso, costituito sulle fondamenta di una città fittizia soltanto nella fiction, perché tutto ricorda le memorie nostalgiche di Ríos.
Mortes, il protagonista del primo racconto, arriva a Tamoga in un giorno di pioggia e ci viene descritto come 'allegro, timido, triste, burlone, insolente, rispettoso, cinico, burbero, cortese'. L'autore si rivolge a noi lettori, e nelle parole è chiaro il senso di quel corteo fatto di ombre del titolo. Contorni sfumati, ombrosi, si dileguano da queste figure e stampano aloni di nostalgia in quel di Tamoga.
Ombre secche e ossute che non vogliono lasciare andare i ricordi di un marito defunto, come doña Sacramento Andreini del secondo racconto; lei che diventa monile fra i monili, ferma tra tendaggi logori e centrini colmi di tarme. Ombre che schiacciano amori fraterni e ne colgono altri in sospiri di libidine. Ombre immobili e moribonde, omicide o suicide, impotenti o no, ombre incontinenti che fuggono e poi fanno ritorno in quella cittadina che sa di muffa e canfora, attutita dalla nebbia e inchiostrata da turnazioni di presente incerto e passato persistente.
Come spiegare tutto questo, la levità, quell'impressione meravigliosa di leggerezza e libertà quando si penetra nelle tenebre e la notte esplode in una vampata accecante e dieci miliardi di stelle si spengono, si vanno smorzando con un tremore di ghiaccio, e una marea di scintille si dissolve in un balenio mentre navighi alla deriva nell'oscurità senza limiti. Come spiegare la sensazione di angoscia che ti assale al principio, quando credi di perderti in un luogo strano ma vagamente conosciuto, finché non scopri di trovarti nella stanza di letto di casa tua.
La scrittura di Julián Ríos è immaginifica e acre.
Ringrazio Safarà editore per la copia del romanzo.
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